Alessandro De Santis e Mario Francese si raccontano alla luce della loro partecipazione al Bicocca Music Festival. Dalla provincia al palco di Sanremo, un percorso artistico in continuo movimento, all’insegna della ricerca e della sperimentazione.
Dal 2022 al 2024, tra i numerosi palchi che avete calcato spiccano quello di X-Factor, che vi ha visto trionfanti, e poi quello del Festival di Sanremo, con tutto il clamore mediatico annesso. Qual è il vostro rapporto con il successo? La vostra vita è cambiata negli ultimi mesi?
Alessandro: “successo” è una parola gigantesca. In generale, a livello di numeri e di vita effettiva non possiamo parlare del tutto di successo nonostante il nostro bacino di utenza sia aumentato molto negli ultimi due anni. La differenza maggiore nella nostra vita è che in questo momento facciamo musica per mangiare, senza altre attività collaterali. Siamo entrambi riservati e solitari, quindi il clamore mediatico di cui si parla non ha fatto breccia in noi e mi auguro non lo faccia mai (ride).
Mario: sono d'accordo con Alessandro e dipende poi che accezione diamo al successo perché se lo intendiamo in termini di stabilità o di fama, siamo di fronte a due elementi sicuramente importanti ma comunque collaterali al nostro obiettivo principale, che è quello di raggiungere il successo personale in termini di consapevolezza artistica; un traguardo che magari arriverà con il tempo e che è molto difficile da costruire. Il successo di X-Factor e gli echi di Sanremo non sono altro che piccole bolle.
Come nasce una canzone dei Santi Francesi? Quali fattori influenzano maggiormente il vostro processo creativo?
M: dipende dalla canzone. La maggior parte delle volte accade tutto in studio attraverso i nostri scambi, focalizzati su ciò che ci stupisce, un particolare concetto o una persona in particolare che abbiamo incontrato e che ci ha lasciato qualcosa. La scintilla parte proprio da questo vicendevole autoalimentarsi: guardiamo il mondo e cerchiamo di raccontarlo nel modo più sincero possibile. Altro aspetto importante nel processo creativo è la nostra dimensione interiore, che a volte ci capita di tradurre in termini più generali in musica affinché chi ci ascolta si ritrovi in ciò che di noi stessi raccontiamo. Il processo, comunque, è sempre deduttivo, mai induttivo.
A: mi trovo pienamente nella descrizione che ha fatto Mario. Le nostre canzoni nascono spesso in modo casuale e siamo fortunati perché essendo il nostro lavoro costellato da continue interazioni con autori, altri artisti e produttori, il rischio è sempre quello che il processo creativo possa passare con facilità da dedotto a indotto. Una delle sensazioni più belle che provo durante la scrittura e che mi invoglia continuamente a scrivere canzoni è quella di connettere le mie antenne con il mondo per captare le sue storie da condividere poi con chi ci ascolta.
In uno dei vostri brani più noti, "La Noia", si affronta con sincerità un tema che nel vortice contemporaneo di stimoli reali e virtuali a cui siamo continuamente sottoposti sembra essere un tabù. Cosa vi ha spinto ad affrontare a viso aperto il sentimento di cui stiamo parlando, appunto, la noia?
A: ti rispondo in modo didascalico. La prima cosa che ci ha spinti a farlo è stata proprio la noia stessa. Avevamo da poco terminato X-Factor ed in quel periodo eravamo abbastanza apolidi. Ricordo ancora le giornate trascorse in un appartamento prestato da un amico nel cuore del quartiere Affori di Milano annegando profondamente nella noia. In uno di questi pomeriggi di silenzio quasi inquietante, lavorando su una produzione di Mario, ci siamo chiesti se fosse arrivato il momento di parlare apertamente del nostro stato d’animo. È stato semplicissimo rispondere a questa domanda cominciando a scrivere. La Noia è nata così.
Il mondo della musica è in continua evoluzione ed oggi più che mai è difficile sfuggire alle etichette; penso a come siano cambiati negli anni, ad esempio, i paradigmi dell'espressione "Indie", a cui magari siete stati anche accostati. C'è un genere in particolare o un mondo a cui vi sentite di appartenere?
A: facciamo musica pop, il nostro indirizzo è questo. Come duo e come individui abbiamo moltissime influenze, quindi è difficile per noi aderire con precisione ad un genere musicale; forse è più facile che lo notino gli altri! (ride) Personalmente, devo comunque ammettere che il mio mondo di riferimento è il rock; nonostante le fasi di scoperta e di uscita dai miei confini sonori, torno costantemente ad ascoltare le canzoni con cui sono cresciuto approdando in un tunnel spazio-temporale che mi fa stare molto bene.
M: anche le mie origini musicali risiedono nel rock, precisamente nel progressive. Il rock, come linguaggio, è stata la prima realtà con cui sono venuto a contatto musicalmente parlando. Da circa cinque anni a questa parte, però, io e Alessandro ci siamo spostati in maniera sincronizzata verso pop ed elettronica e questo viaggio, che continua ancora oggi, ha sicuramente influenzato le nostre composizioni. Aggiungo anche che ultimamente, quando necessito di una pausa dal mondo, viro tantissimo sull’ambient music.
Giovedì 29 maggio vi esibirete nel nostro Ateneo. Che rapporto avete con l'Università e più in generale con lo studio? Che studenti sono stati Alessandro De Santis e Mario Francese?
M: la domanda giusta è “che studenti vorremmo essere?” Io mi sono laureato distrattamente in Ingegneria del Cinema all’Università degli Studi di Torino. Io e Alessandro lavoravamo già entrambi per la nostra musica ed eravamo quindi molto impegnati. Diciamo che il mio percorso di studi non è stato pienamente soddisfacente. Appena avrò più tempo mi piacerebbe ripartire da capo, magari con un percorso più specifico e sicuramente con più consapevolezza. A prescindere però da quanto detto gli anni dell’Università sono stati comunque fondamentali per la mia crescita personale.
A: il mio rapporto con l’istituzione scolastica non è mai stato idilliaco. Ho cominciato a suonare seriamente intorno ai 14 anni e da quel momento ho vissuto con difficoltà i restanti anni del liceo scientifico. A differenza di Mario non sono laureato! Dopo il diploma ho cominciato a lavorare per potermi mantenere e per poter coronare il sogno di fare musica, attitudine poco compresa nel contesto socio-culturale da cui proveniamo entrambi. Se potessi tornare a sedermi tra i banchi di scuola affronterei sicuramente tutto in modo molto più rilassato e consapevole mettendo davanti a tutto la voglia di imparare.
La sera del concerto vi troverete di fronte tanti ragazzi che studiano nella nostra Università. Qual è il consiglio più importante che vi sentite di dare ai vostri coetanei o ai ragazzi ancora più giovani per affrontare al meglio le tante incertezze della nostra epoca?
A: credo sia difficile a 25 anni mettersi nelle condizioni ideali per rispondere a questa domanda; ciononostante, se dovessi dialogare con ragazzi di una generazione successiva alla mia, cercherei di focalizzare la mia attenzione sulla verità come punto di partenza verso la realizzazione senza inseguire in alcun modo uno status. Se penso al mercato della musica pop di oggi, mi vengono in mente i troppi tentativi di raggiungere rapidamente la fama con ritornelli e motivetti orecchiabili finalizzati esclusivamente al raggiungimento del successo, anche con una certa rapidità. Il pop è un’altra cosa! Il mio consiglio, comunque, è di guardarsi dentro, sempre.
M: concordo pienamente con Alessandro perché agire con consapevolezza è sicuramente importante ma lo è altrettanto commettere errori, soprattutto quando si è più giovani. Sbagliare ci aiuta a ripartire e soprattutto a migliorare, prendendo pienamente coscienza delle nostre azioni; gli errori aiutano a fermarsi per poi ripartire più forte!