Se pare scontato abbinare i virus alle malattie, meno lo è immaginare che sia possibile rendere i primi dei preziosi alleati, utilizzandoli per difendere le piante da funghi e batteri al posto dei pesticidi.
Quest’intuizione è al centro del progetto europeo Viroplant, a cui partecipa Milano-Bicocca con i Dipartimento di Sociologia e ricerca sociale e il Master MaCSIS (Comunicazione della scienza e innovazione sostenibile). Abbiamo chiesto ad Andrea Cerroni, docente di sociologia e comunicazione della scienza e direttore del Master, di parlarci del progetto.
Professore, in cosa consiste il progetto Viroplant?
Il progetto si propone di approfondire la conoscenza del ruolo ecologico di alcuni virus che sono responsabili della salute delle piante. Più precisamente viene posta sotto osservazione l'azione di biocontrollo naturale nei confronti di batteri e insetti vettori delle malattie. Questi processi sono già oggetto di studio e negli ultimi 20 anni si stanno raccogliendo importanti risultati e riconoscimenti. Quello che manca è uno studio sistematico di come può funzionare un'azione benefica, e ciò potrà essere possibile anche attraverso la realizzazione di una consistente banca dati delle varietà di virus che risultano efficaci nel contrasto di particolari malattie.
Quale obiettivo si pone?
In primo luogo è bene tenere presente che attualmente alcune malattie delle piante necessitano di un uso massiccio di prodotti chimici che l'EU sta progressivamente limitando e mettendo al bando. Se dal punto di vista della legislazione ciò è un passo importante nella sensibilizzazione della questione ecologica, dal punto di vista agrotecnico non ci sono ancora delle tecnologie sostitutive adeguate e ciò può indurre alcuni operatori del settore a ignorare le norme pur di salvare la produttività. Vi saranno dunque ricadute piuttosto concrete e immediate nella misura in cui tali processi risulteranno tecnicamente efficaci, economicamente efficienti e socialmente accettati, e non solo dal punto di vista ecologico (non gravando sulle condizioni dei terreni). Evidentemente, sarà necessaria una legislazione nuova. In secondo luogo, come tutte le innovazioni tecno-scientifiche, possiamo immaginare nuovi processi e nuove professioni che affiancheranno o sostituiranno alcune di quelle attuali. Potremmo cioè iniziare a pensare alla virologia come a una disciplina che si occupa della vita degli organismi e non solo delle loro malattie e della loro morte.
I virus come alleati: come si è arrivati a quest' intuizione?
Si tratta di un ambito di ricerca che negli ultimi 20 anni sta ottenendo risultati promettenti e riconoscimento diffuso, tanto che alcuni prodotti biotecnologici basati su virus sono già commercializzati negli Stati Uniti - ma senza utilizzare l'espressione 'virus' nel nome. Si tenga presente che negli oceani essi compongono il 90% della biomassa e sono responsabili del 20% delle sue morti.
Come viene percepito secondo lei dall'opinione pubblica questo utilizzo dei virus?
L'idea che possano esserci virus alleati che, in particolarissime condizioni, possano essere benefici per noi, è un'idea che si avvicina a quella del vaccino (anche se si differenzia in modo significativo perché il vaccino entra e modifica l'organismo, l'uso dei virus agisce solo sui batteri, gli insetti e i funghi che sono i vettori della malattia). Ciò - in questo periodo storico di scetticismo nei confronti della tecnoscienza e della biopolitica - potrebbe rivelarsi un importante ostacolo per una discussione orientata ad una conoscenza partecipata dell'innovazione. Pertanto, ragionare sulla percezione pubblica dei virus in generale e delle biotecnologie basate sui virus per la protezione delle piante in particolare, sarà un'occasione importante per osservare come si comporta l'opinione pubblica su importanti temi dell'agenda pubblica, quali la ricerca tecnoscientifica, i rischi emergenti nel settore agro-chimico, la salute umana e ambientale in generale, e - non da ultimo - le legislazioni europee sulle innovazioni biotecnologiche. Infine, soffermarsi un poco di più su quello che si sta facendo in laboratorio costituisce una risorsa per i ricercatori del XXI secolo che nutrono nei confronti della società e del loro ruolo in essa un nuovo senso di responsabilità. In questa direzione vanno anche gli sforzi della Commissione Europea racchiusi nell’approccio denominato Responsible Research and Innovation (RRI). Vediamo, insomma, ancora una volta, come tecnoscienza, comunicazione e innovazione siano strettamente legati.