«È vero: si tratta di un lavoro che richiede impegno costante – spesso si svolge su turni – e che assorbe moltissimo: l’educatore pian piano diventa quasi un genitore per molti ragazzi. Ma ripaga di tutto l’impegno.» Così Laura Formenti, pedagogista e direttrice del Master “Le buone pratiche del lavoro educativo in comunità minori”, chiarisce subito un aspetto fondamentale di una professione affascinante e ricca di sfide. A lei abbiamo chiesto di parlarci dell’importanza di questo servizio fondamentale, ancor più oggi che la pandemia ha acuito le situazioni di difficoltà in molte famiglie.
L’educatore di comunità per minorenni: come formarlo in modo competente?
Ormai da qualche anno, per svolgere ogni professione socio-educativa, è obbligatorio per legge il titolo di laurea in Scienze dell’educazione. Questo perché si tratta sempre di servizi complessi e delicati, che richiedono alte competenze e strumenti precisi. L’educatore di comunità, nello specifico, lavora 24 ore su 24, 7 giorni la settimana, con bambini e adolescenti, presso la struttura residenziale. Il nostro corso offre quindi strumenti nelle principali discipline - pedagogiche, psicologiche, sociali, giuridiche – per garantire una completezza di formazione unica in Italia.
Nel Master inoltre, ospitiamo un Mooc, un corso online di auto-formazione di base già inserito come insegnamento: aperto a tutti, è stato sviluppato nel recente progetto internazionale Erasmus Plus ERCCI - “Empowering Residential Child Care through Interprofessional training”.
Nello specifico, in che contesto opera e con chi?
L’educatore svolge il suo servizio presso case che ospitano massimo otto-dieci ragazzi, che arrivano da situazioni di privazione e drammi, per cui hanno bisogno di esser seguiti in tutti gli aspetti, a partire dalla ricostruzione di una sana quotidianità: andare a scuola, fare i compiti, cenare insieme. L’inserimento è temporaneo e mira a un rientro in famiglia, a un affidamento familiare, oppure a una transizione verso la maggiore età e l’autonomia. Sono servizi in costante cambiamento, per adattarsi ai bisogni emergenti. Si stanno anche diffondendo le comunità diurne, per minori o anche per famiglie, che prevedono poche ore di permanenza presso la struttura e quindi un impegno diverso da parte degli operatori.
Cosa rende questo ruolo così importante, secondo lei?
Pensiamo anzitutto che gli ospiti delle varie tipologie di comunità sono molto variegati: dagli adolescenti minori non accompagnati, provenienti da migrazioni forzate, agli adolescenti con situazioni penali – quando la comunità diventa sostituto degli arresti domiciliari, fino a quelle per bambini più piccoli in situazioni di allontanamento temporaneo dalla famiglia d’origine. Questo fa capire come l’educatore debba essere preparato a rispondere in modo efficace a bisogni diversi. C’è poi il rapporto con le famiglie d’origine, con la scuola, il territorio: garantire una buona vita agli ospiti significa accompagnarli a vivere bene in tutti gli ambiti.
Attualmente ci sono cinque disegni di legge che mirano a una revisione, se non alla chiusura, delle comunità per minori. Lei cosa ne pensa?
Chiudere le comunità è irrealistico. Le proposte di legge, che arrivano da forze politiche diverse, sostengono il diritto dei bambini a vivere nella propria famiglia, come sancito dalla CRC (la carta internazionale dei diritti dei bambini e delle bambine, ndr) dove però è anche precisato che le persone di età minore devono essere protette efficacemente e tempestivamente da situazioni di abuso e maltrattamento. In Italia, rispetto ad altre nazioni, gli allontanamenti sono molto pochi, dell’ordine della metà per esempio rispetto alla Germania o alla Francia.
Ritengo che scegliere di andare verso una chiusura indiscriminata, facendo finta che le situazioni familiari siano tutte sane e senza problemi, sia un grosso errore di valutazione: il vero snodo è investire nella formazione di operatori competenti e garantire la qualità degli interventi.