Comprendere il “peso” che hanno le materie prime critiche nel sistema industriale italiano per poter definire le strategie per un approvvigionamento sicuro e sostenibile: un lavoro che il Ministero dello Sviluppo Economico ha avviato da poco più di un anno, in linea con le indicazioni emerse a livello europeo. Un contributo importante a questo processo arriva dal Criet, il Centro di ricerca interuniversitario in Economia del Territorio cui aderiscono nove atenei. Un primo studio relativo all’importanza che le materie prime critiche hanno per le produzioni italiane, basato sul valore degli elementi importati dal nostro Paese, è stato presentato nell’ottobre scorso a Ecomondo. Dal lavoro è emerso che ai primi dieci posti figurano materie prime che, nel complesso, valgono il 92% dell’import. Solo tre di esse figurano nell’elenco stilato dall’Unione europea di materie prime non energetiche da considerarsi critiche: una “etichetta” che viene assegnata a quei materiali che hanno una grande rilevanza per la realizzazione di tecnologie pulite e sono in larga misura di provenienza extra Ue, con il conseguente rischio che fattori geo politici possano influire su fornitura e prezzo.
Limitando l’analisi al valore delle importazioni, le materie prime critiche che rivestono un ruolo fondamentale per il nostro sistema produttivo sono, dunque, la bauxite, i metalli del gruppo del platino e il titanio. I settori di impiego sono, rispettivamente: la produzione di alluminio e l’industria aeronautica; l’industria automobilistica, l’industria farmaceutica e la meccanica di precisione; l’industria chimica, la gioielleria e la produzione di dispositivi medici e attrezzature sportive. A queste tre materie prime critiche ne va aggiunta una quarta: il carbon coke, undicesima nell’elenco degli elementi importati.
Un nuovo studio sul fabbisogno di materie prime critiche in Italia, che raccoglie le sollecitazioni emerse dal lavoro curato dal Criet, è in via di pubblicazione e conferma quanto scaturito dalla prima analisi. A curarlo è un team composto dal direttore del Criet, Angelo Di Gregorio, professore ordinario di Economia e gestione delle imprese del Dipartimento di Scienze Economico-Aziendali e Diritto per l'Economia dell’Università di Milano-Bicocca; da Debora Tortora, professore associato di Economia e gestione delle imprese dello stesso Dipartimento; da Alessandro Cavallo, ricercatore di Georisorse minerarie del Dipartimento di Scienze dell’Ambiente e della Terra di Milano-Bicocca; dalle ricercatrici del Dipartimento per la produzione statistica dell’Istat Cristina Lanzi e Mirella Morrone.
Il nuovo lavoro ha preso in esame tutti gli acquisti di materie prime strategiche (non solo critiche) effettuati a livello nazionale nel periodo compreso tra il 2015 e il 2020. In particolare è stato tenuto in considerazione sia il valore che le quantità di tali acquisti. Basandosi su quest’ultimo aspetto, emerge che nelle prime dieci posizioni figurano ancora bauxite e titanio, insieme al carbon coke. Non vi rientrano i metalli del gruppo del platino, su cui incide il prezzo unitario. Da questo emerge una chiara indicazione: l’importanza delle materie prime critiche, pur fondamentale, in particolare in vista della transizione alla green economy, non deve far perdere di vista la necessaria attenzione che, a livello nazionale, meritano altri elementi che importiamo e che sono strategici per il nostro sistema produttivo.
Lo studio segnala anche la necessità di valutare “l’effettiva possibilità di sostituire nel breve tempo le materie prime critiche e con quali costi per la collettività”, non sottovalutando il rischio che “la transizione dell’industria europea, e nazionale, verso la neutralità climatica” possa trasformare la dipendenza dai combustibili fossili in “dipendenza dalle materie prime critiche”. Uno dei possibili scenari da considerare sarebbe, quindi, un ritorno all’energia nucleare, ma gli autori dello studio sollecitano una riflessione anche “sulla possibilità di trattare con minore severità l’utilizzo degli idrocarburi quale fonte energetica”.
Su quest’ultimo aspetto, il professor Di Gregorio è chiaro: «Il problema ambientale è talmente grande - osserva - che non può essere risolto con un approccio semplicistico. Mettendo da parte le battaglie ideologiche, sia pro che contro una determinata scelta, occorre utilizzare al meglio un mix degli strumenti a nostra disposizione».