Negli ultimi due anni abbiamo imparato a familiarizzare con concetti che fino a qualche tempo fa erano per lo più sulla bocca degli scienziati: medici, statistici e matematici.
Dopo l’avvento del Covid, parlare di “crescita esponenziale del numero di infetti” o discutere con amici e colleghi dei coefficienti R0 o Rt è diventato comune anche tra i non addetti ai lavori e così i modelli matematici hanno iniziato a godere di una fama inaspettata.
Ma la modellizzazione matematica delle epidemie vanta una storia molto lunga: oltre un secolo di vita. Si tratta di un settore molto attivo della matematica che solo una pandemia scoppiata nell’era dei social avrebbe potuto far diventare “pop”.
I modelli matematici di trasmissione delle infezioni ci aiutano a quantificare quante persone verranno colpite e a fare delle ipotesi realistiche e attendibili sulla durata dell’epidemia.
In un recente lavoro di ricerca, Daniela Bertacchi, docente del dipartimento di Matematica e applicazioni dell’Università di Milano-Bicocca, insieme ai colleghi Fabio Zucca del Politecnico di Milano, Jurgen Kampf dell'ospedale universitario di Essen e Ecaterina Sava-Huss dell'Università di Innsbruck, ha messo a punto un modello di trasmissione epidemiologica basato sul calcolo delle probabilità.
Il team di ricerca ha voluto confrontare che cosa accade in una popolazione omogenea, in cui tutti gli individui a priori hanno la stessa probabilità di infettarsi e trasmettere il virus e ciò che accade in una popolazione disomogenea, in cui la probabilità di infettarsi è distribuita in maniera diversa tra gli individui. In altre parole, c’è una parte della popolazione che ha una minore probabilità di infezione e una minore probabilità di trasmettere il virus e al contempo una frazione della popolazione che, invece, ha una maggiore probabilità di contrarre il virus.
La minore probabilità di trasmettere il virus può essere dovuta all’attivazione di una campagna vaccinale, all’utilizzo di dispositivi di protezione o all’osservanza di regole di distanziamento sociale, solo per fare degli esempi. “Il modello matematico, tuttavia, non prende in considerazione il motivo della riduzione della probabilità di infezione – chiarisce Bertacchi - non si basa dunque su dati medici/epidemiologici, ma punta a capire, in termini di probabilità, se il fatto che una parte della popolazione abbia una minore probabilità di infettarsi, anche se questo comporta che un'altra frazione della popolazione abbia una maggiore probabilità di infezione, possa essere un vantaggio per la popolazione totale”.
Ebbene, gli studiosi hanno dimostrato che nelle popolazioni disomogenee sia il numero di persone infettate alla lunga, sia la durata dell'epidemia risultano inferiori rispetto alle popolazioni omogenee. “Risultati simili – prosegue Bertacchi - sono stati ottenuti in passato con simulazioni numeriche e l'aver trovato anche una dimostrazione rigorosa è importante perché sancisce la robustezza di questi risultati, nonché, ancora una volta, l'importanza delle campagne vaccinali”.
Campagne vaccinali che, a guardare le evidenze di questo studio, si rivelerebbero efficaci anche in una fase iniziale e anche in quei casi in cui non vi sia una disponibilità di dosi tale da coprire tutta la popolazione, si pensi alle criticità emerse rispetto alla distribuzione del vaccino nei paesi poveri e in via di sviluppo: “L’aspetto interessante che emerge da questo modello – conclude Bertacchi - è che ridurre la percentuale di persone che è suscettibile di infettarsi è un vantaggio anche se si tratta di una piccola frazione della popolazione. Rispetto ad una popolazione in cui tutti hanno la stessa probabilità di infettarsi, anche laddove sono in pochi ad avere una bassa probabilità di contrarre il virus, ci sarebbe una percentuale totale inferiore di popolazione colpita e una durata minore dell’epidemia”.