Dall’Università di Milano-Bicocca al cuore della discarica di Dakar: Luca Rimoldi, Professore di Antropologia Culturale e Sociale presso l’Università di Milano-Bicocca e Vicepresidente della Società Italiana di Antropologia Applicata, dal 2016 studia le persone la cui vita gravita attorno alla discarica di Mbeubeuss, in Senegal.
Professore Rimoldi, cosa l’ha spinta a concentrare la sua ricerca proprio sulla discarica di Mbeubeuss, e cosa significa per un antropologo “studiare” un luogo come questo?
Dopo un lungo periodo trascorso a studiare i contesti urbani milanesi e a lavorare su diversi temi, dalla memoria operaia del quartiere Bicocca, alla relazione tra lavoro formale e informale nelle case popolari, al ruolo dei ristoranti riconosciuti come Botteghe Storiche nella memoria urbana, sentivo il bisogno di un cambiamento.
Ed è stata proprio la mia tutor di dottorato, Alice Bellagamba – oggi collega nel Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione “Riccardo Massa” – a suggerirmi di guardare all’Africa Occidentale, dove da tempo dirige la missione etnologica in Senegal e Africa Occidentale MESAO, finanziata dal Ministero degli Esteri. Così, nel 2016, sono partito per il Senegal insieme a Stefano Lentati, cooperante di Fratelli dell’Uomo.
Tra i progetti che stavamo visitando ce n’era uno di microcredito rivolto all’associazione di recuperatori e recuperatrici della discarica di Mbeubeuss, Bokk Diom – un nome che evoca un forte senso di solidarietà: “comunanza di sguardi”. Grazie all’incontro con questa associazione e con Intermondes, un’altra realtà locale partner del progetto, ho avuto quello che in antropologia chiamiamo “accesso al campo”: la possibilità, cioè, di iniziare a conoscere persone, luoghi e dinamiche di una realtà estremamente complessa.
La discarica di Mbeubeuss si trova in Senegal e non è delimitata da mura o confini: è uno spazio aperto, poroso, in cui ogni giorno entrano ed escono persone, merci, materiali. La mia prima impressione fu quella di entrare in una fabbrica enigmatica, dove tutto accade senza che sia subito chiaro il perché. Studiare un luogo come Mbeubeuss per un antropologo significa quindi proprio questo: immergersi in un contesto di rifiuto – rifiuto materiale, ma anche sociale – e cercare di comprenderne le dinamiche.
Il rifiuto non è qualcosa di universale, ma culturalmente definito. Esaminando ciò che viene gettato via, si capisce molto su cosa una società considera puro o impuro, lecito o illecito, interno o esterno all’ordine sociale. E, come hanno dimostrato molti studi etnografici, i rifiuti non dissolvono le relazioni sociali: ne generano di nuove. Nascono così nuove gerarchie, reti economiche, legami familiari, amicali e amorosi.
Chi sono le persone che vivono e lavorano attorno alla discarica di Mbeubeuss? In che modo le loro vite e i loro gesti quotidiani ci parlano di sostenibilità, economia informale e resilienza sociale?
Le persone che popolano Mbeubeuss formano una realtà composita, stratificata e tutt’altro che marginale. La figura più nota è quella dei boudioumane, i recuperatori che attendono il conferimento dei rifiuti e selezionano a mano i materiali riutilizzabili. Ma attorno a loro ruota un vero e proprio ecosistema umano ed economico: ci sono i Borom Charrette (i padroni di carretto), che trasportano i materiali recuperati; i Borom Paak, i grossisti che stoccano e rivendono i materiali; le ristoratrici, tutte donne, che cucinano e vendono pasti all’interno della discarica; i venditori di acqua, di tè, di caffè tuba. Tutti questi attori fanno parte di quello che definisco “l’indotto della discarica”.
Sono tutte figure informali, certo – quindi tecnicamente illegali – ma svolgono un ruolo fondamentale in un’economia in cui l’informale regge spesso l’intero sistema formale. Oltre a queste attività, ne esistono altre ancora più stigmatizzate: vendita di alcol illegale, prostituzione, spaccio… Segno che, come in ogni sistema complesso, esistono diverse soglie di legalità e accettabilità sociale.
Anche dal punto di vista spaziale, la discarica si è evoluta negli anni. Sono nati due insediamenti stabili, Gouye-gui e Baol, con funzioni e popolazioni differenti. In un certo senso, Mbeubeuss si è strutturata come una “città nella città”, pur non essendo propriamente né una città né parte di Dakar. Quando è stata creata, alla fine degli anni Sessanta, era in una zona lontana dal centro, tra villaggi con pochissime abitazioni. Ma nel tempo, proprio la presenza della discarica ha spinto le persone – soprattutto le più povere – a stabilirsi lì, approfittando del crollo dei prezzi dei terreni.
Queste persone mettono in atto strategie di sopravvivenza che possiamo chiamare bricolage pour survivre: un insieme di attività spesso precarie e informali, ma che permettono di costruire una vita dignitosa. In questo senso, Mbeubeuss è un laboratorio vivente di resilienza sociale, di capacità di adattamento e di creazione di valore a partire da ciò che altri considerano scarto.
Il suo studio si inserisce nell’ambito dell’antropologia applicata. Esistono ricadute concrete della ricerca per le comunità locali o per le politiche ambientali e sociali?
Uno degli obiettivi è proprio restituire qualcosa alle comunità con cui si lavora. Lo si fa in molti modi: contribuendo alla produzione di dati utili per ONG o istituzioni, partecipando a momenti di discussione e co-progettazione con le associazioni locali, offrendo strumenti interpretativi che possano essere riutilizzati da chi opera sul campo.
In contesti come quello di Mbeubeuss, conoscere a fondo le dinamiche sociali, lavorative ed economiche permette anche di costruire proposte di intervento più mirate, realistiche e rispettose dei saperi locali. Non si tratta di “dare voce” – perché le persone ce l’hanno, eccome – piuttosto di creare spazi in cui quella voce venga ascoltata anche dai decisori politici, dagli operatori del settore ambientale o dai media.
Quali riflessioni o strumenti critici pensa che una ricerca come quella su Mbeubeuss possa offrire agli studenti universitari, anche a chi non si occupa direttamente di antropologia?
Cosa è “sporco”, cosa è “pulito”, chi è “dentro” e chi è “fuori” dalla società? Una ricerca come questa sicuramente ci obbliga a mettere in discussione alcune categorie che diamo per scontate e a riflettere su che cosa intendiamo quando parliamo di lavoro, legalità, cittadinanza.
Inoltre, Mbeubeuss ci insegna che ogni forma sociale, anche quella più apparentemente marginale, è organizzata, ha delle regole, dei valori, delle logiche proprie. Questo tipo di sguardo – critico, relazionale, capace di cogliere le ambiguità – è uno strumento prezioso non solo per gli studenti universitari ma in generale per chiunque si occupi di società, di ambiente, di economia, di diritto.
A tutto questo, aggiungerei anche un aspetto etico e politico: fare ricerca in un luogo come questo significa riconoscere la dignità di chi vive e lavora “ai margini”, senza romanticizzarne la condizione, ma senza nemmeno rimuoverla o ridurla a emergenza. E questa, credo, è una lezione che può arricchire qualsiasi percorso di studi.