Tanto nel linguaggio accademico come nella lingua di uso quotidiano può capitare di imbattersi in alcuni elementi che hanno una dimensione filosofica intrinseca ed esprimono - benché la maggior parte delle volte inconsapevolmente - una visione del mondo.
Una delle coordinate che delimitano il campo in cui si sviluppa il nostro pensiero è proprio il concetto di spazio, che attraversa tutte le discipline e gli ambiti dell’esperienza umana perché ha una sua ricca polivalenza semantica. Abbiamo affrontato questo tema con il professor Aurelio Molaro, filosofo e storico della scienza presso il nostro Ateneo e autore di un’interessante monografia sull’argomento, da poco pubblicata: Storia del concetto di spazio: dai Greci alla relatività generale (Carocci editore).
Nel suo libro il focus è posto non sugli elementi materiali o immateriali che si muovono sulla scena, ma sullo sfondo, sulla scena in quanto tale. Come mai un libro sul concetto di spazio?
Principalmente per due ragioni: la prima è che la storia del pensiero filosofico e scientifico è caratterizzata da una netta predominanza di trattazioni relative al tempo, alla temporalità che scorre, alle età della vita, anche dal punto di vista esistenziale. Sotto questo profilo, il concetto di spazio ha goduto di un interesse sicuramente minore, e ciò ha attirato la mia curiosità. Questa mia indagine è arrivata dopo anni di studi e ricerche che ho condotto in modo particolare lungo due direttrici. La prima, che intreccia temi di storia della psicologia e di storia della matematica, è culminata nella cura dell’edizione critica della tesi di laurea di Cesare Musatti su Geometrie non-euclidee e problema della conoscenza, dapprima inedita. La seconda invece risale alle mie ricerche sulla tradizione fenomenologica in psicopatologia e psichiatria, e in modo particolare alle due figure di Ludwig Binswanger e di Eugène Minkowski. Entrambi hanno posto con grande chiarezza e rigore metodologico il problema dei vissuti psicopatologici in relazione alle categorie fondamentali della spazialità e della temporalità.
Si può considerare secondo lei il concetto di spazio come uno dei determinanti impliciti della “filosofia naturale” antica, come il foglio tra le righe del testo o, come si usa dire, “il mezzo che determina il messaggio”?
Direi di sì. Nel senso che la cosiddetta filosofia naturale fin dal primo momento in cui ha rivolto il suo sguardo alla realtà, con un senso di stupore e di meraviglia, ha cercato di comprenderne e afferrarne i principi costitutivi, gli elementi naturali o indeterminati che la caratterizzavano, e li ha pensati attribuendo loro, per così dire, anche una precisa “collocazione” spaziale. Nel pensiero antico si origina anche una fondamentale diatriba concettuale, che contrappone l'idea di spazio come contenitore assoluto di tutte le cose a quella di uno spazio come ordine di relazioni dato dagli enti, dagli oggetti che fisicamente vi si distribuiscono e in esso si muovono. Questo dualismo accompagnerà per molti secoli la riflessione sulla spazialità. La prima concezione ha le sue radici nel pensiero pitagorico e atomista, la seconda ha come principale esponente Aristotele.
Cosa succede con il Rinascimento prima e poi con la rivoluzione scientifica?
Il periodo rinascimentale comincia a introdurre una serie di sfumature concettuali che, opponendosi all’aristotelismo classico e medievale, hanno a che fare con il concetto di infinito: un tema posto - più dal punto di vista metafisico che fisico - da Giordano Bruno, solo per fare un esempio. Galilei e Keplero mostrano ancora una certa cautela verso l'idea di uno spazio o di un universo infinito. Per loro sembra essere qualcosa di difficilmente controllabile dal punto di vista dell'osservazione e quindi della metodologia scientifica.
Il contributo determinante viene a essere quello di Newton, che per la prima volta vince in modo netto la battaglia con Aristotele - e di riflesso anche con Cartesio e Leibniz - per i quali lo spazio consisteva appunto in questo ordine di relazioni tra le cose. Newton pone un concetto di spazio che è destinato a rimanere valido nel discorso fisico fino ai primi del Novecento e di fatto in un certo senso, a livello intuitivo o per così dire di senso comune, è valido ancora oggi: l'idea di uno spazio come contenitore assoluto, che non ha bisogno ed è indifferente alla materia che contiene.
Dal punto di vista filosofico sarà Kant a tradurre la posizione newtoniana su un piano conoscitivo, gnoseologico: lo spazio si trasforma nell’a priori della nostra esperienza del mondo esterno, ciò che la rende effettivamente possibile.
Dovremo infine aspettare la seconda metà dell’Ottocento con i lavori di Faraday e Maxwell sull’elettromagnetismo per porre le basi di quello che sarà un vero e proprio mutamento di prospettiva, per cui la spazialità si configura come campo. Questa è la struttura portante della concezione dello spazio che Einstein, anche sulla scorta dello sviluppo dei sistemi geometrici non euclidei, applica poi allo studio dei fenomeni gravitazionali. Lo spazio diviene così il supporto su cui rappresentare l’insieme dei campi che descrivono la realtà fisica e le cui componenti dipendono dalla definizione di tre parametri spaziali e di un parametro temporale nella forma di un “continuo” quadridimensionale: uno spazio-tempo curvo che si modifica localmente in funzione della presenza o della distribuzione di materia-energia.
Si potrebbe dire, con una battuta, che lei ha reinterpretato la storia del concetto di spazio e della spazialità in generale con gli occhi della teoria della relatività che lega insieme tempo e spazio?
Senza dubbio la lettura dell’opera di Einstein (come quella di altri grandi protagonisti della storia della scienza occidentale) è stata per me estremamente fruttuosa. La sua invidiabile sensibilità filosofica ed epistemologica mi ha senz’altro aiutato a rileggere e ricomprendere all’interno di precisi quadri concettuali molte delle istanze teoriche del pensiero antico e medievale (ma anche dell’età moderna) originatesi intorno al problema dello spazio. Più in generale, questo ci porta a sottolineare ancora una volta la necessità di una profonda consapevolezza filosofica, storica ed epistemologica per ogni disciplina scientifica. È questa una dimensione che troppo facilmente si tende a dimenticare e che il nostro sistema universitario oggi tende pericolosamente a sottovalutare: basti considerare l’oggettiva carenza di insegnamenti di questo tipo nei nostri corsi di laurea. La storia ci insegna invece che grandi uomini e donne di scienza sono stati anche grandi filosofi e importanti storici del pensiero scientifico. Il libro che ho scritto si propone proprio di esaminare, fin nelle pieghe più nascoste, un concetto fondamentale che tutte le discipline utilizzano, ma sul cui sviluppo storico-concettuale pochi adeguatamente si interrogano. Non è una mera questione di semantica, ma di consapevolezza degli strumenti concettuali che usiamo nella pratica scientifica e delle loro implicazioni metodologiche e applicative. A questo servono la storia e la filosofia della scienza.
Lo spazio, come il libro non manca di rilevare fin dalle prime pagine, è un concetto polivalente. C’è qualcosa che accomuna secondo lei le sue possibili declinazioni?
La storia dei concetti scientifici è di per sé intrinsecamente pluralistica. Più che di concetto di spazio al singolare, dovremmo parlare di concetti che aderiscono ai diversi ambiti della nostra vita. Per esempio, la musica in fin dei conti altro non è che una relazione spaziale, fatta di intervalli tra note che vanno a formare armonie e melodie, tanto che siamo in grado di raffigurarla spazialmente, oltre che evidentemente di sentirla. Le stesse onde acustiche attraversano lo spazio e sono soggette anche loro a deformazione, come la luce.
L'elemento spaziale permea poi profondamente il discorso psicologico. Lo ritroviamo in teorie importanti, come quelle di matrice gestaltista che descrivono l'esperienza percettiva o le dinamiche di interazione sociale: non a caso si parla anche in questo caso di un “campo percettivo” e di uno “spazio di vita”. In definitiva, se la spazialità rappresenta a tutti gli effetti un filo conduttore importante del nostro sapere e della nostra esperienza, sono il suo pluralismo e la sua poliedricità a definirne davvero la natura più profonda.