Il tema di fondo della sostenibilità non solo si lega alle questioni ambientali, ma crea anche uno scenario favorevole per disegnare nuovi modi di concepire l’istruzione e i modelli formativi durante la nostra vita.
Andrea Galimberti è ricercatore in Pedagogia Generale e Sociale presso il Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione “Riccardo Massa”, dove insegna Pedagogia del Lavoro.
Gli abbiamo chiesto in che modo l’apprendimento possa diventare un processo continuo e senza fine che si rinnovi costantemente.
Quanto è sostenibile un modello formativo che preveda competenze da acquisire lungo tutto l’arco della vita lavorativa?
L’apprendimento permanente e lo sviluppo delle competenze sono ormai considerate un fattore chiave per lo sviluppo individuale e collettivo. Si tratta di un processo legato all’idea di valorizzare il capitale umano che ha iniziato ad avere una forte presa nei discorsi collettivi a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, ad opera soprattutto di organismi internazionali come UE, OCSE, UNESCO. La società e l’economia della conoscenza, le organizzazioni che apprendono, sono diventate centrali nel dibattito scientifico e la formazione continua un elemento fondamentale da progettare, realizzare, gestire, verificare nei suoi esiti.
La presenza di questi temi nei documenti internazionali e nel dibattito scientifico non significa che, a quasi trent’anni di distanza dal primo anno europeo dedicato al lifelong learning, abbiamo raggiunto i risultati che allora venivano prospettati: in diversi ambiti, sia internazionali che nazionali, siamo lontani dalla possibilità di offrire ai lavoratori gli strumenti necessari per affrontare i cambiamenti del mercato del lavoro e di garantire alle organizzazioni le condizioni per sostenere finanziariamente e operativamente la formazione continua.
Ma questo è solo uno degli aspetti della questione. Da un lato, infatti, abbiamo oggi una cultura lavorativa in cui è ampiamente dichiarata la possibilità di incentivare, rendere visibile, valorizzare l’apprendimento. Si tratta di un’indubbia conquista se pensiamo alla cultura taylorista e all’alienazione dei lavoratori causata dalla monotonia e dalla ripetitività.
Da un altro punto di vista siamo immersi all’interno di una cultura satura di strumentalità e competitività, quindi l’economia della conoscenza porta con sé nuove forme di alienazione, che non vanno sottovalutate e da cui ci arrivano diversi segnali: mi sto riferendo agli indicatori di stress lavoro correlato, al fenomeno delle grandi dimissioni, al malessere legato alla mancanza di equilibrio tra vita lavorativa e vita personale cui sembrano sensibili soprattutto le nuove generazioni.
Io credo che la sfida della sostenibilità apra per i sistemi formativi la possibilità di interrogarsi su come rendere più democratica la formazione continua ed anche su come rendere i luoghi di lavoro sostenibili. Una riflessione che troviamo ad esempio nell’esperienza Olivetti, una realtà che ha preso forma in una situazione socio economica profondamente differente da quella contemporanea, ma che ha tracciato possibilità che continuano ad ispirare molti.
L’economia della conoscenza viene spesso accostata alla “guerra dei talenti” proposta dalla società McKinsey sul finire degli anni Novanta. Nelle loro intenzioni stava ad indicare il fenomeno di competizione tra le imprese per arruolare quei talenti in grado di assicurare un vantaggio competitivo, è ancora così?
Le persone saranno sempre più orientate a scegliere ambienti di lavoro dove potersi rispecchiare eticamente, apprendere continuamente nuove competenze e intraprendere nuove sfide. Le organizzazioni lo sanno bene e oggi tra le principali strategie orientate a trattenere i talenti troviamo azioni atte a sviluppare il welfare aziendale, i percorsi di crescita individuale e politiche attente ai valori. Ovviamente non è tutto oro ciò che luccica, accanto a esperienze realmente trasformative troviamo realtà in cui siamo di fronte a un utilizzo puramente strumentale di queste variabili (pensiamo alle strategie di greenwashing dove la sostenibilità è solo un’operazione cosmetica per attrarre clienti da un lato e “talenti” dall’altro).
Detto questo, nella formulazione di McKinsey il talento veniva definito come “il nuovo petrolio” e sovrapposto, di fatto, a una risorsa economica, a un bene da accaparrarsi, far fruttare e sottrarre alla concorrenza.
Come sfidare oggi la metafora della “guerra”?
Credo che il primo punto si giochi sull’equilibrio tra talento individuale e la dimensione sociale, cioè quella fitta rete di relazioni attraverso cui prendono forma, si sviluppano e vengono sostenuti i nostri apprendimenti. Pensare in termini ecologici significa non perdere queste connessioni, il lavoro alla prova della sostenibilità si troverà sempre più a declinare il talento al plurale, in un’ottica di diversità, cooperazione e integrazione più che di antagonismo e competizione.
La nuova sfida sarà quella di creare contesti inclusivi in cui la differenza diventerà la vera variabile per far sviluppare il sistema organizzativo e i sistemi più ampi di cui è parte.
Si parla molto anche della formazione continua come elemento fondamentale per favorire la flessibilità e la mobilità dei lavoratori, consentendo loro di cambiare settore o di acquisire nuove competenze in modo efficiente e veloce.
Sì, anche su questo punto i documenti internazionali rivolti ai sistemi formativi hanno molto insistito, soprattutto negli ultimi dieci anni. In un’economia mutevole e imprevedibile focalizzare i propri apprendimenti esclusivamente su contenuti tecnici porta con sé il rischio di essere estromessi dal mercato nel momento in cui queste specializzazioni divengono improvvisamente non più utili. Le storie recenti ci offrono una quantità di esempi di tecnologie che scompaiono improvvisamente a causa di un’innovazione difficilmente prevedibile. Per questo motivo si enfatizza la necessità di sviluppare competenze trasversali, che, appunto, non si legano a uno specifico oggetto o contesto, ma piuttosto a formae mentis, a una serie di attitudini e capacità sviluppate nel tempo. Oggi qualsiasi selezionatore di risorse umane ha ben in mente che gran parte del processo di valutazione si baserà su questi elementi: le organizzazioni preferiscono investire più sulla flessibilità che non sulla specializzazione, più sulla capacità di apprendere che su specifici contenuti a rischio di rapida obsolescenza.
Anche su questo aspetto però ci sarebbe molto da dire. Spesso le competenze trasversali, così come il talento, vengono immaginate, descritte e trattate come “merci”, come beni che è possibile spostare da un posto a un altro lasciandole inalterate. Ma gli apprendimenti che sviluppiamo non funzionano esattamente così: noi apprendiamo nel tempo a lavorare con gli altri, a dialogare creativamente con le idee altrui, a comunicare in modo più efficace, ma lo facciamo, appunto, sempre in presenza di altri. Le competenze trasversali sono sociali, dunque dipendono dal contesto e la loro trasferibilità non è mai scontata.
La formazione continua, sempre nella direzione della sostenibilità, deve aiutare le persone che cambiano lavoro a ricalibrare, tradurre o anche trasformare le proprie competenze.
Quale ruolo in questo senso per l’università? Si parla molto della necessità di allineare le competenze rispetto al mercato…
L'università ha un ruolo chiave in questo scenario. Da un lato, non può ignorare ciò che accade nel mondo socio-economico in cui si trova; dall'altro, non può limitarsi a fornire solo le competenze richieste dal mercato del lavoro. La sfera accademica ha sempre rappresentato una differenza rispetto ad altri sistemi, ed è importante mantenere questa differenza, interrogandosi costantemente su quali effetti genera.
Si parla tanto di pensiero divergente, di pensiero creativo come risorsa fondamentale per un’economia fondata sull’innovazione e poi dimentichiamo che i grandi innovatori spesso sono dei grandi “disallineati”, capaci di tradurre le proprie idee in contesti differenti da quelli in cui sono state generate. E non mi sto riferendo solo a innovazione tecnologica in senso stretto, ma anche a nuovi modi di immaginare la società, le organizzazioni e il nostro rapporto con l’ecosistema più ampio.
In questo senso, di nuovo, l’ecologia insegna: i sistemi viventi non tendono alla monocultura ma alla biodiversità, è la diversità ciò che rende un sistema flessibile, capace di inventare nuove forme e di sopravvivere quando le condizioni ambientali improvvisamente cambiano.
Se decidiamo di prendere davvero sul serio la crisi ecologica in cui siamo immersi, anche la formazione non può limitarsi a assumere il ruolo di mera variabile strumentale al servizio di un’economia ancora fondata su idee come la crescita assoluta. Oggi, nell’epoca dell’antropocene, sono gli umani ad avere un potere inedito rispetto alla capacità di modellare gli ecosistemi e questo implica posizionamenti etici non più rinviabili. L’università ha sicuramente il compito di preparare le nuove generazioni per i nuovi lavori che le attendono, ma ha anche il ruolo di immaginare ciò che non esiste, di anticipare e generare il cambiamento di cui abbiamo sempre più bisogno.