Quasi due anni fa il Covid-19 è entrato nelle nostre vite. In quel momento, quando del virus e dei suoi effetti si conosceva ancora poco, una notizia gettò nel panico milioni di persone: gli ipertesi (più del 30 per cento degli italiani). L’allarme - rientrato ben presto grazie ai chiarimenti della comunità scientifica - riguardava l’ipotesi che i farmaci antipertensivi potessero spalancare le porte al virus, aumentando il rischio di mortalità.
Oggi un nuovo studio pubblicato sul Journal of Hypertension (DOI:10.1097/HJH.0000000000003059), condotto dall’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo e dall’Università di Milano-Bicocca, in collaborazione con l’IRCCS Istituto Auxologico Italiano, fa luce sull’impatto dei farmaci antipertensivi (sartani e ace inibitori) nei pazienti affetti da COVID-19 in maniera severa.
Utilizzando i dati dell’ospedale orobico, territorio colpito in maniera grave nella prima ondata della pandemia, con un tasso di mortalità elevatissimo, «siamo riusciti a dimostrare per la prima volta con dati clinici – spiega il professor Gianfranco Parati, direttore scientifico dell’Istituto Auxologico Italiano e professore senior di medicina cardiovascolare all’Università di Milano-Bicocca - il ruolo che questi farmaci per l’ipertensione effettivamente svolgono nel determinare il rischio di morte nei pazienti COVID».
Il lavoro mostra, in particolare, una fortissima interazione tra l’effetto di questi farmaci e l’età. Se nei soggetti più giovani - sotto i 68 anni, in questo studio – il rischio di mortalità resta basso, indipendentemente dall’assunzione o meno di questi farmaci, «nei soggetti più anziani, sopra i 68 anni, chi assume farmaci antipertensivi non solo non è a rischio maggiore – chiarisce Parati - ma addirittura mostra una riduzione della mortalità in ospedale o appena dopo la dimissione del 29 per cento per entrambe le classi combinate, riduzione che è più evidente per i sartani».
Un studio questo che, basandosi su dati clinici provenienti da una coorte di pazienti ad altissima mortalità, conferma con forza le raccomandazioni date dal mondo scientifico agli ipertesi di non sospendere la terapia antipertensiva.
Nel periodo del lockdown più severo, con il sistema sanitario sotto stress e il Covid che uccideva, era emerso un ulteriore problema per i pazienti ipertesi: in molti rinunciavano ai controlli in ospedale e in ambulatorio. «Di fronte a questa situazione – spiega il professor Parati - ci siamo posti il problema di cosa succedeva al controllo dell’ipertensione; abbiamo condotto perciò uno studio con il quale abbiamo analizzato i dati relativi al controllo dell’ipertensione rilevato in telemedicina durante il lockdown, confrontandoli con un periodo di controllo nella stessa stagione dell’anno precedente, quando non c’era il Covid».
I risultati del lavoro pubblicato sull’European Journal of Preventive Cardiology hanno mostrato che nonostante lo stress da pandemia, i pazienti ben seguiti a casa con tecniche di medicina digitale (come la telemedicina) durante il lockdown riportavano valori della pressione simili o inferiori al periodo pre-lockdown: «La conclusione che ne abbiamo tratto – afferma Parati - è che se riusciamo a stare in contatto con i nostri pazienti grazie alle tecniche di telemedicina - li rassicuriamo e diamo loro consigli - la loro pressione è meglio controllata. Vanno considerate, inoltre, le condizioni di maggior riposo e minore stress lavorativo dei pazienti in lockdown».
Lavori scientifici come questo, l’emergenza Covid e la conseguente pressione sul sistema sanitario hanno aperto gli occhi sui vantaggi della telemedicina. È anche da questa consapevolezza che muove l’idea per un nuovo studio multidisciplinare dell’Università di Milano-Bicocca, coordinato dal professor Parati, sulla prevenzione delle malattie cardiovascolari che prenderà il via nel corso di quest’anno. Lo sviluppo delle tecnologie digitali, utili sia per la raccolta e la trasmissione sicura e automatica dei dati clinici tramite App per smartphone, sia per l'erogazione di consulti medici e specialistici, facilitando il rapporto medico-paziente, potrebbe rappresentare uno dei modi più efficaci per migliorare il profilo di rischio cardiovascolare.
«L’obiettivo finale – spiega Parati - è lo sviluppo di programmi di prevenzione innovativi e personalizzati che sfruttino le potenzialità delle nuove tecnologie per la gestione e il miglioramento dei fattori di rischio cardiovascolare».
Il progetto, che coinvolgerà su base volontaria gli abitanti del quartiere Bicocca, prenderà in esame non solo i classici fattori di rischio (l’ipertensione, il colesterolo, il diabete e il fumo) ma indagherà a fondo anche su tutte quelle condizioni che caratterizzano la nostra società, soprattutto nelle città metropolitane: l’inquinamento atmosferico, il rumore, le alterazioni della flora batterica intestinale e quelle del sonno, studiando come questi fattori incidano sulle malattie cardiovascolari.