La relazione tra formazione medica e un atteggiamento di cura empatico e centrato sui bisogni del paziente è al centro di uno studio guidato da Stefano Ardenghi, psicologo e ricercatore del Dipartimento di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca.
La ricerca, pubblicata sulla prestigiosa rivista internazionale Patient Education and Counseling, è stata condotta nel contesto del corso di laurea magistrale a ciclo unico in Medicina e Chirurgia del nostro Ateneo. I risultati mettono in luce quanto sia importante la formazione medica nel promuovere un approccio che consideri il paziente come un alleato nel percorso di guarigione. In tal modo ci si pone l'obiettivo sia di trattare la malattia, sia di prenderci cura dei bisogni emotivi, delle aspettative e delle credenze della persona che la vive.
Dottor Ardenghi, come mai ha deciso di esplorare questo argomento?
Sin dalle primissime battute della mia formazione e professione psicologica ho capito quanto la relazione tra il clinico e il suo assistito sia un prezioso veicolo di cura. Solo mediante la relazione terapeutica, infatti, possiamo coltivare quel sentimento senza il quale per noi esseri umani diventa impossibile affidarci a chi si prende cura di noi e aderire alle sue proposte terapeutiche, ovvero la fiducia. Ho incontrato e approfondito il tema del rapporto medico-paziente grazie all’invito della professoressa Maria Grazia Strepparava a far parte del suo gruppo di lavoro di Medical Education and Health Communication che da oltre 15 anni si occupa principalmente di empatia, di tecniche di comunicazione e del benessere di studenti e operatori delle professioni sanitarie. Ho così scoperto che l’Università degli Studi di Milano-Bicocca ha particolarmente a cuore il tema della formazione medica al punto che è uno degli attori protagonisti dello Studio Longitudinale sul Benessere e le Attitudini degli Studenti di Medicina promosso dalla conferenza permanente dei presidenti dei corsi di laurea magistrale a ciclo unico in medicina e chirurgia. Questo studio coinvolge diverse università in Italia e mira a esaminare il benessere e le attitudini degli studenti di medicina, dal loro ingresso nel corso di laurea fino al momento in cui entrano nel mondo del lavoro.
Quali strumenti sono stati utilizzati per esplorare l’atteggiamento degli studenti di medicina verso il rapporto medico-paziente?
Abbiamo esplorato come l'atteggiamento verso la relazione medico-paziente sia cambiato nel corso del tempo in quattro "coorti" consecutive di studenti iscritti al corso di laurea magistrale in Medicina e Chirurgia di Milano-Bicocca. La somministrazione del questionario Patient-Practitioner Orientation Scale in due momenti, il secondo e il quinto anno di studi, ci ha permesso di esaminare i due aspetti fondamentali della medicina centrata sul paziente: lo Sharing, che indica la tendenza a coinvolgere il paziente in una relazione collaborativa in cui il medico è visto come esperto della tecnica e il paziente come esperto di sé stesso, e il Caring, che si riferisce alla considerazione e alla presa in carico dei sentimenti e delle esperienze soggettive del paziente legati alla malattia.
Cos’ha scoperto di interessante?
Abbiamo esaminato come l'atteggiamento dei futuri medici nei confronti del rapporto con i pazienti si sia evoluto nel corso del tempo, considerando il paziente come un partner alla pari e condividendo con lui le decisioni relative alle cure (Sharing). L'atteggiamento di accoglienza e presa in carico dei bisogni emotivi del paziente (Caring) è rimasto sostanzialmente stabile nel corso degli anni di studio. Analizzando più da vicino queste traiettorie, abbiamo scoperto che gli studenti che iniziano il percorso formativo con elevati livelli di "Sharing" e "Caring" tendono a ridimensionare tali atteggiamenti nel corso degli anni, mentre coloro che iniziano con tali livelli più bassi, tendono a valorizzarli maggiormente durante la formazione medica.
Secondo le nostre ipotesi, la spiegazione a questo fenomeno potrebbe risiedere nel fatto che chi inizia gli studi idealizzando il rapporto medico-paziente ristruttura progressivamente il proprio atteggiamento clinico dando meno spazio alla relazione dopo averne saggiato la difficile e faticosa gestione durante l’esperienza di tirocinio pratico; chi invece inizia la formazione con un atteggiamento che non considera il rapporto medico-paziente uno strumento di cura si trova invece ad apprezzarne maggiormente il valore terapeutico nel corso degli studi. Inoltre, i nostri risultati confermano quanto già noto in letteratura: le studentesse di medicina tendono ad adottare un approccio al rapporto medico-paziente maggiormente incentrato sulla condivisione e sulla cura rispetto ai loro colleghi maschi.
Che ruolo può rivestire il suo studio nella formazione degli studenti di Medicina in Italia?
La formazione medica è un processo incalzante, fatto di lezioni frontali, studio “matto e disperatissimo”, partecipazione a laboratori ed esercitazioni e caratterizzato da un monte ore molto ingente di tirocini pratici nei reparti ospedalieri e nei diversi servizi sanitari sul territorio. In questo turbinio di stimoli formativi gli studenti raramente hanno la possibilità di fermarsi e di chiedersi che tipo di medici stanno diventando. La lettura di questo nostro lavoro può quindi diventare un’occasione per rallentare e rispondere a questa domanda cercando di mettere a fuoco il significato che si sta attribuendo all’essere medico, anche e soprattutto rispetto alla relazione con i pazienti.
Cosa consiglierebbe agli educatori e ai responsabili dei programmi formativi alla luce dei risultati ottenuti?
Alla luce dei promettenti risultati ottenuti, consiglio agli educatori e ai responsabili dei programmi formativi delle altre Scuole di Medicina italiane di valutare e monitorare i livelli di patient-centeredness degli studenti, magari organizzando proprio come facciamo qui in Bicocca, momenti formativi di gruppo che, partendo anche dalla discussione di casi clinici, diano agli studenti la possibilità di condividere le esperienze e i vissuti sperimentati nel rapporto tra i pazienti e i medici che stanno diventando. Consiglio loro inoltre di non trascurare gli effetti del cosiddetto curriculum nascosto (hidden curriculum), ovvero a quell’insieme di idee, valori e atteggiamenti dei docenti e dell’istituzione universitaria che influenza l’apprendimento degli studenti costituendo per loro un possibile modello di comportamento che potrebbe discostarsi da quello di una medicina patient-centered. Infine, mi permetto di suggerire ai formatori in ambito medico di esortare gli studenti ad esplorare e a fare esperienza di come si fa medicina all’estero, anche e soprattutto in contesti geografici e culturali in cui, a causa della povertà e delle scarse risorse, la medicina non ha a disposizione tecnologie all’avanguardia in modo tale da comprendere appieno la centralità della relazione con l’altro come strumento terapeutico nel percorso di cura.