Autunno 2020. Emisfero nord. Più precisamente nord Italia, la pianura padana, alle prese con la pandemia. «Io mi trovavo a casa, in quello che era uno degli epicentri del virus, almeno apparentemente. Invece alcuni miei colleghi, tra cui anche qualche ex-Bicocca che ora lavora presso la King Abdullah University of Science and Technology (KAUST), presso Jeddah, in Arabia Saudita, in mezzo a mille limitazioni, si stavano preparando a vivere una delle esperienze più formative della loro vita». Comincia così il racconto di Valentina Alice Bracchi, ricercatrice a tempo determinato di tipo B, paleontologa e paleoecologa presso il Dipartimento di Scienze dell’Ambiente e della Terra dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca.
Nell’autunno del 2020, infatti, stava per prendere il via la prima spedizione targata OceanX in Mar Rosso, denominata Deep Blue Expedition, a bordo della nave OceanXplorer. La prima di tante, con l’obiettivo di esplorare le sconosciute profondità del Mar Rosso orientale, nell’ambito del grande progetto di sviluppo saudita NEOM.
Se si cita il Mar Rosso, non si può non pensare alle sue rigogliose scogliere coralline o ai pesci colorati. Ma il Mar Rosso non fa eccezione e, come buona parte dell’oceano, è ampliamente inesplorato. In particolare la costa saudita sarebbe stata esplorata per la prima volta dai 50 m di profondità fino agli abissi. Quello che si apprestavano a fare i ricercatori e le ricercatrici a bordo era esplorare ogni giorno il fondale tramite l’uso di sommergibili e veicoli filoguidati per osservare e descrivere per la prima volta in assoluto gli ambienti mesofotici (con luce ridotta) e afotici (senza luce) delle coste saudite del Mar Rosso.
Dopo le prime immersioni esplorative, i colleghi a bordo hanno iniziato a identificare ricorrenti gruppi di organismi al fondo, i quali erano responsabili di una biodiversità e geodiversità di habitat molto più ampia di quanto si aspettassero. Racconta la dott.ssa Bracchi: “Tra questi, su ampie aree della porzione esterna della piattaforma continentale, la porzione di fondale marino che va dalla costa fino alla scarpata, in numerosi siti del golfo di Aqaba e del nord-est del Mar Rosso, si trovavano estese aggregazioni di quelle che sembravano come delle “bocce”, solitamente di colore variabile dal rosso al marrone. Molte di queste “bocce” ospitava una sorta di ombrello appiattito, uno o più esemplari di corallo zooxantellato solitario del genere Leptoseris. Sembravano così affascinanti. E soprattutto, nessuno le aveva mai descritte!”. È stato in questo momento che la dottoressa Bracchi è stata contattata ed è entrata nei giochi. L’idea che si erano fatti i colleghi a bordo è che si trattasse di un fondo a rodoliti, un argomento di cui la dottoressa si occupa nelle sue ricerche in Mar Mediterraneo. Le rodoliti sono noduli costituiti per lo più da alghe coralline incrostanti, alghe che hanno cellule completamente mineralizzate e che biocostruiscono, ossia, esattamente come fanno i più famosi coralli tropicali, sono in grado di creare delle strutture rigide, vere e proprie rocce, sul fondale marino, oppure forme libere nodulari, le rodoliti appunto.
Il lavoro di ricerca
Così, la dottoressa Bracchi ha organizzato il primo di una serie di viaggi presso KAUST, per poter procedere allo studio di questi campioni. Fin da subito, dall'analisi dei video registrati con i sottomarini, lungo transetti che hanno indagato decine di chilometri di fondali inesplorati del Mar Rosso, è stato chiaro che si trattava di un tipo di fondale veramente peculiare e inaspettato. Le immagini parlavano da sole. “Tra i 50 e i 130 m di profondità il fondale era spesso coperto quasi interamente da noduli molto arrotondati, parzialmente sepolti nel sedimento. Interessante notare che fungevano contemporaneamente da substrato per molti altri organismi eretti, dalle spugne ai coralli, evidenziando subito il loro ruolo di aggregatori di biodiversità. Si trattava di qualcosa di simile alle rodoliti, ma questi noduli non lo erano. Le croste solitamente rosa-rosse delle alghe calcaree erano troppo sporadiche per essere le principali costruttrici di queste strutture”.
Lo studio dei campioni raccolti, tramite l’utilizzo di tecniche di microscopia ottica ed elettronica, ha svelato la natura di questi noduli, che sono costituiti dalla crescita laminare, concentrica e più o meno regolare di foraminiferi incrostanti (Acervulina cf inhaerens), alghe coralline crostose, briozoi sparsi e serpulidi.
In ambiente mesofotico, a quelle profondità, la possibilità di avere habitat biocostruiti è molto limitata da fattori quali la scarsità di luce o di nutrienti e il possibile apporto sedimentario. E invece il fondale è più che “vivo” e i protagonisti sono organismi poco noti alla cronaca. Non si tratta di rodoliti infatti, ma di noduli fatti di foraminiferi incrostanti e un minor contributo delle alghe calcaree e altri organismi. Grazie alle datazioni al radiocarbonio è stato possibile ricostruire che i noduli hanno una età risalente a più di 2300 anni BP. Il che significa che da allora, con tasso di crescita molto lento, ma evidentemente abbastanza costante, strutturano letteralmente il fondale marino.
I risultati
La scoperta non è eccezionale solo da un punto di vista della biologia e della geologia. È anche di estremo supporto nel contesto della pianificazione ambientale di gestione sostenibile e sfruttamento delle risorse marine, perché conoscere cosa c’è sul fondale del mare, quale è il suo valore e produrre risultati quantitativi sulla distribuzione degli habitat è di fondamentale importanza infatti per agire in modo mirato e conservativo. Per questo motivo, la dottoressa Bracchi, insieme ai colleghi, ha prodotto anche un Habitat Suitability Model dei fondi coperti da noduli.
Si tratta di un modello di distribuzione predittiva di un habitat, basato sulla caratterizzazione di tutti i parametri fisici e abiotici associati al habitat stesso. Questo approccio ha permesso, ad esempio, di calcolare l’area potenziale coperta dai noduli, ma anche di quantificare quanto carbonato di calcio hanno prodotto. “Questi noduli sono una “fabbrica” di carbonato e pertanto devono essere presi in considerazione quando si modellizza il bilancio della produttività di carbonato di calcio in ambiente marino, il loro contributo al ciclo del carbonio inorganico, e le sue possibili implicazioni nello scenario del cambiamento climatico, nel contesto del fenomeno ormai noto di surriscaldamento delle acque superficiali e acidificazione dei bacini” conclude la dottoressa Bracchi, aggiungendo che questa ricerca è stata anche una esperienza umana di grande valore, grazie alla possibilità di entrare in contatto con un paese così diverso dall’Italia, un paese con una storia profonda tutta da scoprire.