Dall'incontro tra fisica e biologia un nuovo approccio farmacologico per la cura del cancro e delle malattie neurodegenerative - Bnews Dall'incontro tra fisica e biologia un nuovo approccio farmacologico per la cura del cancro e delle malattie neurodegenerative

Dall'incontro tra fisica e biologia un nuovo approccio farmacologico per la cura del cancro e delle malattie neurodegenerative

Dall'incontro tra fisica e biologia un nuovo approccio farmacologico per la cura del cancro e delle malattie neurodegenerative
Folding di una proteina

Dopo le molteplici attestazioni di stima già ricevute da Nature negli ultimi anni, arriva ora anche la conferma da parte di uno dei Centri di ricerca più importanti al mondo, l'MD Anderson Cancer Center. La giovane startup, nata dall'università di Trento e trasferitasi ora alle porte di Milano, ha un potenziale importante e ha orientato il focus della propria ricerca su un terreno fecondo di nuove scoperte nel campo della terapia delle patologie oncologiche e neuro-degenerative.

Professor Pietro Faccioli, com'è nata Sibylla?

Sibylla è nata dall’incontro di due persone, Emiliano Biasini e il sottoscritto, e di due discipline diverse: la fisica teorica e la biologia molecolare. Biasini è un biochimico, esperto di alcune malattie neurodegenerative, mentre io provengo da una formazione in fisica subnucleare, ma nei 15 anni precedenti mi ero occupato prevalentemente di biofisica computazionale. Nello specifico, la ricerca del mio gruppo si concentrava sullo sviluppo di metodi per simulare i cambiamenti di forma nelle macromolecole della vita, le proteine in particolare. Questi processi sono tipicamente troppo rari e complessi per poter essere riprodotti con i calcolatori, perlomeno utilizzando le tecniche computazionali tradizionali della biofisica (la cosiddetta dinamica molecolare). Tuttavia, ci siamo accorti che, utilizzando alcuni strumenti teorico-matematici inizialmente introdotti per studiare fenomeni quantistici all’interno di particelle subatomiche, è possibile abbattere enormemente lo sforzo computazionale richiesto, rendendo possibile lo studio di processi biofisici molto complessi con i supercomputer esistenti, in particolare il ripiegamento delle proteine. Ciò ha rappresentato l’innovazione metodologica alla base della nascita di Sibylla.

Come si formano le proteine?

Le proteine vengono sintetizzate da complessi macromolecolari, che le “stampano” sotto forma di catene lineari. Mentre la catena viene sintetizzata, tende a ripiegarsi autonomamente fino ad assumere una forma precisa - che viene chiamata “stato nativo” - nella quale la proteina svolge la sua specifica funzione biologica. Per ripiegarsi, le proteine devono formare delle interazioni specifiche, e per riuscirci devono esplorare le molte forme possibili. Questi cambiamenti di forma sono determinati in parte da fluttuazioni casuali, generati dagli urti con le molecole d’acqua circostanti. In teoria il processo di ripiegamento potrebbe completarsi in tempi abbastanza brevi, nell'ordine dei microsecondi, tuttavia in pratica occorrono tempi molto più lunghi (da decine di millisecondi fino a ore) perché la proteina trovi il modo di “risolvere il suo puzzle” e raggiungere lo stato nativo.

Facciamo un esempio intuitivo: supponiamo di trovarci in una stanza e di voler tirare una pallina a caso finché questa passi attraverso uno spiraglio nella porta semichiusa. Il tempo che la palla impiega ad attraversare la porta di per sé è piccolissimo, ma il numero di tentativi casuali che dobbiamo fare perché la pallina si infili proprio nello spiraglio della porta è elevato e quindi possiamo impiegare anche una giornata in tentativi infruttuosi. In termini matematici questo era un ostacolo che con le tecniche tradizionali non si poteva superare, perché si sarebbero dovuti elaborare e simulare intervalli di tempo molto lunghi. Negli ultimi 20 anni sono state sviluppate molte tecniche per affrontare questo tipo di problemi, ma nessuna permetteva di simulare il ripiegamento di proteine di interesse biologico. Gli algoritmi che il nostro gruppo di ricerca ha sviluppato invece, utilizzando strumenti di matematica derivati dalla fisica teorica subnucleare, ci hanno consentito di simulare, grazie a modelli fisici realistici e a livello di dettaglio atomico, il meccanismo di ripiegamento delle proteine, una volta che sia noto lo stato finale di arrivo.

Quindi quando è avvenuta la svolta?

Nel 2018 avevamo ormai portato a termine tutte le validazioni sperimentali necessarie: eravamo in grado di predire in modo estremamente accurato la sequenza di piccole modifiche che una proteina fa per ripiegarsi, conoscendone lo stato di arrivo, e sapevamo caratterizzare le forme transienti più importanti (chiamati stati intermedi di ripiegamento). Il passo successivo era sviluppare il lato applicativo della nostra scoperta e l’incontro con Biasini in questo è stato fondamentale perché si è appassionato al nostro lavoro, aprendo una nuova prospettiva. Insieme, abbiamo capito che conoscendo gli stati intermedi di ripiegamento, potevamo individuare molecole in grado di impedire che un processo di ripiegamento si completasse. Una proteina che non riesce a ripiegarsi è una proteina malformata e le cellule vanno costantemente a caccia di queste proteine e le degradano, in un certo senso le digeriscono, rimettendone in circolo i pezzettini. Se la proteina in questione ha un effetto patologico, inibire il suo ripiegamento rappresenta un principio terapeutico. Partendo da questo assunto, Biasini ed io abbiamo concepito la tecnologia PPI-FIT: Pharmacological Protein Inactivation by Folding Intermediate Targeting

Che cosa differenzia il protocollo farmacologico PPI-FIT dall’approccio tradizionale?

La farmacologia razionale tradizionale è basata sull’avere come target una proteina nel suo stato nativo, e il suo obiettivo è interferire con la sua funzione biologica. Ciò si ottiene identificando piccole molecole in grado di legarsi alla superficie della proteina bersaglio. Purtroppo ci sono molte patologie per le quali questo metodo non funziona: per esempio, alcune proteine hanno superfici particolarmente lisce che non permettono legami con piccole molecole, oppure – come accade in molte malattie neurodegenerative – la proteina può assumere una nuova forma patogenica. I primi risultati li abbiamo avuti infatti con la proteina prionica che è quella coinvolta nel cosiddetto “morbo della mucca pazza”, una delle patologie neurodegenerative invariabilmente letali, che non sono curabili con tecniche farmacologiche tradizionali. Aiutati anche un po’ dalla fortuna siamo riusciti ad avviare la sperimentazione con due molecole che rispondevano ai requisiti e che una volta somministrate riducevano, come ci aspettavamo, i livelli di densità della proteina bersaglio nelle cellule. Molti studi successivi hanno confermato che stavamo effettivamente inibendo il ripiegamento di queste proteine, determinandone la degradazione. In quel momento abbiamo capito che avevamo tra le mani un nuovo meccanismo applicabile in principio a tutte le patologie, in particolare a quelle che non siano aggredibili con le tecniche farmacologiche tradizionali. Abbiamo cominciato ad avere i primi finanziamenti importanti dal mondo dei venture capital e intrapreso accordi strategici con importanti industrie farmaceutiche. Nel 2021 la rivista Nature ha incluso Sibylla tra le migliori 8 startup biotech nella classifica delle più promettenti del pianeta.

A coronamento di tutto ciò viene ora l’accordo con MD Anderson Cancer Center, che cosa rappresenta per voi?

MD Anderson Cancer Center non è un ospedale come gli altri: è il centro clinico più grande negli Stati Uniti, probabilmente il polo d’eccellenza mondiale per l’oncologia. Anche grazie ad un budget enorme, che è ulteriormente cresciuto negli ultimi anni, è in grado di portare avanti interessi di ricerca ampi e trasversali. Il fatto stesso che l'accordo di collaborazione sia stato annunciato con una dichiarazione congiunta in cui il metodo PPI-FIT viene definito "una rivoluzione nell’ambito oncologico" dà l’idea delle potenzialità che MD Anderson ha individuato nella nostra metodologia: per noi si tratta di un endorsement importantissimo e della possibilità di ampliare i nostri studi a nuove aree terapeutiche.

Un’ultima curiosità, visto che è in un certo senso il filo conduttore della vostra esperienza: qual è il suo punto di vista sull'interdisciplinarietà nella ricerca scientifica? Spesso si lamenta la tendenza verso un eccessivo specialismo...

In generale lo specialismo è un fenomeno che si sta invertendo. A partire dagli ultimi 15 anni c'è stato un cambio di paradigma soprattutto all'estero. L’Italia è un po' più indietro nel cogliere questa trasformazione. Dopo mezzo secolo di frammentazione e specializzazione degli ambiti di ricerca ora si stanno ricomponendo, ma secondo schemi nuovi, dando origine a gruppi che comprendono scienziati di formazione molto diversa. Ad esempio, il laboratorio di Sibylla che abbiamo trasferito vicino a Milano mette a stretto contatto la biologia con la chimica farmaceutica e per esempio la fisica computazionale.

Ovviamente, questo non avviene nella stessa misura in tutti i campi, ci sono settori importanti dove l’interdisciplinarietà è meno strategica. Nelle scienze della vita però è un processo ormai ben definito e irreversibile. Esistono ancora delle barriere culturali e delle rigidità di approccio perché questo nuovo paradigma si possa affermare anche in Italia, dove storicamente abbiamo un sistema di valutazione della ricerca basato su una divisione netta tra settori disciplinari, ma prima o poi la tendenza si affermerà anche qui.