È di pochi giorni fa la notizia che la casa farmaceutica Pfizer ha deciso di abbandonare la ricerca sulle malattie neurodegenerative, in particolare sull’Alzheimer. Gli investimenti nello studio di nuovi farmaci contro una malattia che colpisce milioni di persone nel mondo non hanno portato ai risultati sperati, il colosso americano, perciò, dirotterà i propri sforzi su altri fronti. Ma a che punto è oggi la ricerca e quali sono le prospettive per il futuro? Lo abbiamo chiesto a Carlo Ferrarese, docente di Neurologia presso il Dipartimento di Medicina e chirurgia dell’Università Bicocca e direttore scientifico del Centro di neuroscienze di Milano (Neuro-Mi).
Strategia aziendale o aspetti scientifici. Perché Pfizer ha abbandonato la ricerca sulle malattie neurodegenerative?
Penso che la scelta di Pfizer risponda a decisioni strategiche aziendali, perché molte altre aziende stanno attualmente investendo ingenti risorse economiche in programmi di ricerca clinica e preclinica nelle malattie neurodegenerative, con uno sforzo particolare nella malattia di Alzheimer.
Questa decisione, che arriva dopo quella di altre case farmaceutiche, rischia di creare eccessivo sconforto. Quali sono le speranze per i malati di Alzheimer e per loro famiglie?
Le speranze per i malati di Alzheimer e per le loro famiglie sono legate al fatto che sono stati finalmente chiariti i meccanismi biologici alla base della malattia e che sono in atto ricerche cliniche in fase avanzata (fase 3) con farmaci che hanno l'obiettivo di bloccare tali meccanismi e quindi di arrestare il progredire della malattia. Nei prossimi 2-3 anni tali studi dovrebbero dimostrare una possibile efficacia di queste strategie terapeutiche.
In quali direzioni sta andando la ricerca sull’Alzheimer?
La ricerca attuale punta molto all'identificazione delle fasi più precoci di malattia, proprio perché si è dimostrato che le terapie sperimentali effettuate nella fase di demenza conclamata, quando il danno cerebrale è avanzato, risultano inefficaci. Oggi è peraltro possibile dimostrare le alterazioni biologiche alla base della malattia, in particolare l'accumulo della proteina beta amiloide nel cervello, anche in soggetti normali o ai primi segni di compromissione cognitiva, quali disturbi di memoria. Proprio questi soggetti sono a rischio di sviluppare la demenza e sono i candidati più appropriati per gli studi clinici in corso, con farmaci che riducono i livelli cerebrali della proteina implicata nella malattia.