All’origine dei gas che i vulcani rilasciano nell’atmosfera - Bnews All’origine dei gas che i vulcani rilasciano nell’atmosfera

All’origine dei gas che i vulcani rilasciano nell’atmosfera

subduzione

Un nuovo approccio nello studio dei fluidi terrestri profondi spiega l’origine del rilascio di anidride solforosa. Un team di ricercatori guidato dall’Università di Milano-Bicocca e che ha coinvolto anche l’Università di Torino e l’ETH di Zurigo, ha condotto una ricerca basata sula modellazione termodinamica dei fluidi elettrolitici in condizioni estreme per comprendere come vengono raggiunte le condizioni per la produzione di questa forma ossidata di gas di zolfo nei vulcani situati dove le placche convergono. I risultati della ricerca sono stati pubblicati sulla rivista “Science Advances” (“Sulfur disproportionation in deep COHS slab fluids drives mantle wedge oxidation”, DOI: 10.1126/sciadv.adj2770). I due autori principali sono Maria Luce Frezzotti, professoressa del dipartimento di Scienze dell’ambiente e della terra (Disat) del nostro Ateneo, e Andrea Maffeis, assegnista di ricerca di Petrologia e petrografia del Disat, che ci spiega il merito della ricerca: «Questo lavoro ha dato una risposta a un problema aperto della vulcanologia».

Andrea Maffeis, ci spieghi quale.

I vulcani terrestri, nel corso della loro vita, emettono nell’atmosfera sostanziali quantità di anidride carbonica (CO₂) e anidride solforosa (SO₂), soprattutto durante le eruzioni esplosive, come quella del Pinatubo, nelle Filippine, nel 1991, o quella più recente dell’Hunga Tonga, nell’arcipelago di Tonga, nel gennaio 2022. La SO₂ è un gas serra che, disperso nell’atmosfera, può anche provocare la formazione di piogge acide, perché reagendo con l’acqua dell’atmosfera produce l’acido solforico. Ciò che non era ancora ben compreso era il motivo per cui i vulcani situati dove le placche convergono, come per esempio quelli lungo la Cintura di fuoco attorno all’Oceano Pacifico, rilasciassero questa forma ossidata di gas di zolfo.

Come siete riusciti a dare una risposta?

“Per capire l’origine di questo rilascio, è stato necessario andare a studiare le placche subdotte (quando, allo scontro tra due placche, una delle due “scivola” sotto l’altra e si immerge nel mantello terrestre raggiungendo centinaia di km di profondità) ed il mantello terrestre al di sotto dei vulcani, perché è lì che viene generato il magma e viene quindi prodotta anche la SO₂”.

E come siete riusciti nell’intento?

“In questo studio abbiamo impiegato un nuovo approccio basato sulla modellazione termodinamica dei fluidi elettrolitici in condizioni estreme. Si tratta di un processo computazionale che prevede, a partire dalla composizione di una roccia, quali minerali e la composizione dei fluidi che sono presenti in quella roccia a specifiche condizioni di pressione e temperatura. Questo metodo fornisce una visione dettagliata delle interazioni tra i fluidi e la roccia, permettendo di calcolare come questi fluidi modificano il mantello terrestre nel corso del tempo fino a raggiungere le condizioni necessarie per la formazione di magmi e dei gas emessi in superficie durante le eruzioni vulcaniche”.

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Quale è stato il risultato del vostro studio?

“A una profondità di 140 km e a circa 700-800°C, cioè dove la crosta oceanica subdotta si trova sotto i vulcani, abbiamo identificato un nuovo meccanismo per il quale i fluidi a zolfo ossidato vengono prodotti in condizioni che prima non si riteneva fossero possibili. Da ciò è emerso che questi fluidi creano le condizioni per cui i vulcani ai margini convergenti delle placche (come le Ande, il Giappone, il Nord America e il Pacifico meridionale) possono eruttare e rilasciare gas serra (sia CO₂ che SO₂) in tempi geologici brevissimi”.

Quanto brevissimi?

“Questo è stato un altro importante risultato della nostra ricerca: abbiamo calcolato che tutti questi processi avvengono in tempi geologici veramente brevi, che spaziano dall’ordine delle centinaia di migliaia di anni fino a pochi milioni di anni, che in termini geologici sono tempi quasi fulminei. In generale è stato questo l’impatto del nostro studio sulla comunità scientifica: avere riconosciuto un nuovo tipo di meccanismo di mobilizzazione dello zolfo, che prima non era noto”.